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Ultimo Aggiornamento: 10/08/2017 11:58
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10/08/2017 11:58
 
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Evelyn de Morgan, Love Potion

La sostanza velenosa sul piano simbolico rappresenta l’eterna presenza del negativo, ma anche la possibilità che il male si muti in bene. Un affascinante articolo di Raffaele K. Salinari ci conduce in un viaggio dalla preistoria al Rinascimento tra miti e misteri.

di Raffaele K. Salinari
La lunga tradizione di guaritori e avvelenatori


«Nulla è di per sé veleno, tutto è di per sé veleno, è la dose che fa il veleno» diceva Paracelso. Nel libro di Castor Durante, medico e speziale rinascimentale, Il tesoro della sanità, edito nel 1586 in Roma, l’autore sostiene che, proprio per questo, ogni veleno ha il suo antidoto, se non specifico, almeno in grado di aiutare il corpo a contrastarne l’effetto. E, in vero, la storia dei veleni e dei loro antidoti è antica quanto quella dell’umanità stessa, affondando nella cosmologia dei tanti mondi possibili che l’umanità ha immaginato per spiegare il suo esserci.

Veleno deriva dal latino venènum, messo in connessione, fatto interessante, con Venus, Venere, dea della bellezza e dell’amore, poiché indicava in origina non una qualsiasi pozione bensì, in specifico, il filtro d’amore. Il venènum diviene poi, per estensione «ogni materia specialmente liquida, capace per la sua forza penetrante di mutare la proprietà naturale di una cosa». Ecco allora che i romani aggiungevano di volta in volta l’aggettivo malum, per designare un prodotto nocivo, distinguendolo così da quello che poteva servire da rimedio.
ossia: «Chi dice veleno deve aggiungere cattivo o buono; invero anche i medicamenti sono veleni, poiché con tal nome si comprende tutto quello che, applicato, modifica la natura di ciò cui lo si applica». Da questo spirito definitorio si capisce bene anche l’etimologia anglosassone di drug che indica sia il farmaco sia lo stupefacente.

Nella civiltà cattolica, non a caso, è il serpente, animale velenoso per eccellenza, anzi la cui unica arma efficace è spesso solo quella della sua produzione mortale, a proporre all’uomo di accedere alla «conoscenza del bene e del male»: secondo l’interpretazione giudaico-cristiana un «veleno dell’anima» che lo porterà alla cacciata dal paradiso e a dover sopportare il peso del peccato originale.




Il mondo Greco

Nelle mitologia greca la triade che sovrintendeva, non solo alla medicina, ma al molto più complesso rapporto tra normalità e patologia, era composta di ben tre divinità. La prima è Ermes-Mercurio, la divinità dell’annuncio e della sottile ironia, dello «spirito che rende liberi e sani», ma anche della duplicità e della trasformazione insite nell’ordine delle cose. Il caduceo di Mercurio è il simbolo della coniugazione degli opposti, i due serpenti la cui risalita e avvinghiamento lungo «l’axis mundi», genera un nuovo equilibrio. Ma il calice della salvezza, nel quale si abbeverano le serpi, è quello nel quale Asclepio, figlio di Apollo, dio dell’armonia, preparerà i suoi rimedi. Questi saranno poi somministrati secondo «scienza e coscienza» seguendo la saggezza di Atena.

Ma il rimedio, il pharmakon, non sarebbe possibile senza il veleno del serpente, in altre parole senza che anche il male partecipi alla guarigione. Perché ciò che cura può anche uccidere, e viceversa. L’etimologia di farmaco è infatti riferita sia ad un principio di cura sia al veleno, forse derivando dall’egiziano mak che significava la compresenza dei due. Il serpente dunque, simbolo non della malvagità ma della parte oscura, nascosta e strisciante che vive in ognuno di noi, non solo non deve essere demonizzato ma è fondamentale associarlo invece alla cura.

La coppia Ermes-Apollo da una parte, ed i due serpenti dall’altra, delineano allora un dualismo che riflette essenzialmente il rapporto archetipico tra il normale ed il patologico, che non possono e non devono essere scissi ma vanno invece ricongiunti. Dice un testo alchemico: «La cura è nel ricongiungimento tra gli opposti. Ermes si occupa di mostrarci la strada regia della congiunzione, Apollo la sua misura, ma sono i serpenti, mobili come il mercurio, terrestri come gli elementi minerali, umidi a mutevoli al contatto con il sole e la luna, che ci forniscono la prima materia». Come nella tragedia greca Dioniso ed Apollo si complementano, così la diade veleno farmaco va letta nella stessa chiave.



Il veleno cosmico


Narra il mito indù che Vishnù mise d’accordo i Deva e gli Asura, dei e demoni sempre in lotta tra loro per il possesso del Mondo, e li spinse ad una forzata collaborazione per produrre l’Amrita, chiamata Soma nei Veda, la bevanda che rende immortali. Il procedimento consisteva nella zagolatura dell’Oceano di latte, la mente umana, usando come frullino la montagna cosmica Mandara e come frusta l’immenso serpente cosmico policefalo Vasuki dalla cui bocca, all’inizio, schiumò un denso veleno, ilkalakuta, che rischiava di annientare tutto il Mondo. Solo lo yogi cosmico, il potente Shiva, poteva berlo ed annientarne così i nefasti effetti: ecco perché il collo del dio sarà sempre tinto del suo blu mortale; da qui uno dei suoi nomi Nilakantha (colui che ha il collo blu).

Levi-Strauss, nel suo Il crudo ed il cotto, ci riporta invece i miti fondatori delle popolazioni indios Kachuyana situate nella foresta amazzonica brasiliana tra il fiume Trombetas ed il Chacorro, inerenti la creazione del curaro, uno dei leggendari veleni da caccia. Quelle popolazioni narrano che un cacciatore, dopo aver ucciso una scimmia, non riusciva a mangiarne le carni per un senso di rispetto sacrale. Dopo molti giorni, trovando sempre un pasto caldo al ritorno dalla caccia, espresse il desiderio di avere una moglie che si comportasse allo stesso modo: entrato nella capanna vide una splendida fanciulla che gli preparava da mangiare; la scimmia era sparita. Dopo le nozze il giovane cacciatore presentò sua moglie alla famiglia. Poi venne il turno della moglie: era la sua una famiglia di scimmie. Il cacciatore fu però lascito solo sugli alberi mentre tutte le altre scimmie scomparivano, inclusa la moglie. Passava di li un avvoltoio al quale il ragazzo chiese aiuto: questi starnutì e dai filamenti di muco si formò una liana. Ma era troppo sottile perché il giovane potesse scendere. Allora l’avvoltoio chiamò l’aquila-arpia che produsse nello stesso modo una liana molto più grossa. Una volta sceso dall’albero al cacciatore l’aquila-arpia insegnò anche come cuocere la liana e ricavarne il curaro col quale egli uccise tutte le scimmie meno una piccolina, dalla quelle vengono tutte quelle attuali.

Anche qui è da notare una relazione tra la nascita del veleno e la donna, mitologema comune a quasi tutte le culture arcaiche, in cui il potere creatore e distruttore del femminile è molto presente.

Levi-Strauss commenta il mito così: «Si direbbe che, per giungere al veleno, i miti debbono tutti passare per una specie di varco, la cui angustia avvicina singolarmente la natura alla cultura, l’animalità e l’umanità», facendo notare che ancora oggi, nelle preparazione del veleno ci si deve astenere da qualsiasi contatto con le donne ma che, soprattutto, le popolazioni indios ritengono che l’aquila-arpia sia l’incarnazione dell’aldilà, del mondo dei morti che ha prodotto quello dei vivi ed ancora veglia su di loro. E dunque il veleno è un dono, il segno di una alleanza, non solo tra generazioni, ma anche tra mondo animale e mondo umano.

Probabili venefici furono ancora quello dell’imperatore Claudio avvelenato dalla moglie Agrippina con un piatto di funghi e una piuma intrisa di una pozione letale, come anche la morte di Britannico per mano di Nerone. Arrivando al Medioevo, troviamo il famoso avvelenatore Carlo detto il Cattivo, re di Navarra e conte d’Èvreux, che regnò dal 1349 al 1387, anno della sua morte. È addirittura con la benedizione del Papa che Machiavelli, testimone delle congiure ordite dai Borgia, con la tristemente nota acqua Tofana, parla del veneficio come arma politica.


L’acqua Tofana

L’acqua Tofana (o Toffana), era composta da una soluzione di anidride arseniosa addizionata con un alcoolato di cantaridina, estratta dalle ali della cantaride, la famosa «mosca spagnola», nota già dai tempi di Plinio ed usata anche come afrodisiaco. Le cronache contemporanee narrano ancora di giovani sprovveduti deceduti per via della cantaridina usata in questo modo. Il filtro mortale ha preso il nome da colei che sembra averlo creato: Giulia Tofana, una cortigiana di Filippo IV di Spagna. La sua storia ci dice che nei primi del Seicento a Palermo, una relazione con un farmacista le permise di aver accesso ai veleni più comuni, e di impratichirsi al loro uso. Pare un vezzo di famiglia, in quanto Giulia era forse la figlia di una certa Thofania d’Adamo, giustiziata a Palermo il 12 luglio 1633, così ci riportano le cronache, per aver fatto morire «cum veneno propinato» suo marito Francesco e per aver venduto una sostanza velenosa che aveva causato altri decessi.

Ma forse la più nota avvelenatrice politica fu Lucrezia Borgia che mise a punto la cosiddetta «camicia italiana». Si prendeva un indumento che doveva stare a stretto contatto con la pelle (una camicia, o una maglia appunto) e lo si strofinava delicatamente con sapone all’arsenico. Se consideriamo che a quei tempi l’igiene faceva difetto, e che dunque un indumento era indossata anche per moltissimo tempo, la vittima lentamente ma fatalmente moriva. Forse una tecnica utilizzata anche dagli inglesi per uccidere Napoleone. In tempi più recenti il veleno è stato usato in casi come quello di Aleksandr Litvinenko, ex agente del KGB morto Il 23 novembre 2006 a causa di un avvelenamento da radiazione da polonio-210, e probabilmente anche per uccidere Yasser Arafat.

www.accademiametafisica.org


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